Il fantasy secondo George R. R. Martin

Si può pensare quello che si vuole di George R. R. Martin, ma ci ha donato un’epopea fantasy che ha lasciato il segno e in ogni caso sono condivisibili le sue parole sul genere che gli ha dato fama imperitura, per cui è sempre bello citarlo.

Le migliori opera di fantasia sono scritte nella lingua dei sogni. Sono vive proprio come sono vivi i sogni, più reali della realtà… almeno per un momento… quel lungo magico momento prima del risveglio.

Il fantastico è d’argento e di scarlatto, d’indaco e d’azzurro, d’ossidiana venata d’oro e di lapislazzuli. Il reale è legno e plastica, fatta di marrone fango e triste verde oliva. Il fantastico sa di peperoncino e miele, cannella e chiodi di garofano, rare carni rosse e vini dolci come l’estate. Il reale è fagioli e tofu, con cenere sul fondo. Il reale è un centro commerciale di Burbank, le ciminiere di Cleveland, un parcheggio a Newark. Il fantastico sono le torri di Minas Tirith, le antiche pietre di Gormenghast, le sale di Camelot. Il fantastico vola sulle ali di Icaro, il reale sulle Southwest Airlines. Perché i nostri sogni diventano tanto più piccoli quando finalmente si realizzano?

Noi leggiamo le opera di fantasia per ritrovare i colori, credo. Per assaggiare forti spezie e sentire le canzoni cantate dalle sirene. C’è qualcosa di antico e vero nel fantastico che parla direttamente a qualcosa insito in noi, al bambino che sognava che un giorno avrebbe cacciato di notte nelle foreste, avrebbe festeggiato sotto di cave colline e trovato un amore che sarebbe durato per sempre, in qualche lugo tra il sud di Oz e il nord di Shangri-La.

Possono tenersi il loro paradiso. Quando morirò, vorrei andare nella Terra di Mezzo.

Detto questo, tocchiamo ferro per la sua chiusa che è meglio.